Seconda lettera ai Corinti 3:1-18
Note in calce
Approfondimenti
lettere di raccomandazione Nel I secolo era comune affidarsi a lettere scritte da persone attendibili che, all’arrivo di uno sconosciuto, lo presentavano e ne confermavano l’identità o l’autorità (At 18:27; 28:21; vedi approfondimento a Ro 16:1). Esistevano prontuari per la corrispondenza che contenevano formule standard da usare in questo tipo di lettere. Qui in 2Co 3:1 Paolo intende dire che non ha bisogno di lettere del genere da o per i cristiani di Corinto per dimostrare che è un ministro. Dato che li ha aiutati a diventare cristiani, può tranquillamente dire: “Siete voi la nostra lettera” (2Co 3:2).
Siete voi la nostra lettera Questa è la risposta di Paolo alla domanda che ha posto nel precedente versetto. La risposta implicita è: “No, non abbiamo bisogno di nessun documento scritto che attesti che siamo autorizzati quali ministri di Dio. Voi stessi siete la nostra lettera di raccomandazione”. L’esistenza della congregazione cristiana di Corinto era di per sé una prova del fatto che Paolo era un ministro di Dio.
scritta nel nostro cuore Paolo voleva bene ai componenti della congregazione e li portava sempre nel suo cuore. Li aveva addestrati perché dessero pubblica testimonianza riguardo a Dio e Cristo, perciò erano una lettera aperta e visibile a tutti, conosciuta e letta da tutti gli uomini.
una lettera di Cristo scritta da noi quali ministri Paolo era “uno strumento” che Gesù Cristo si era scelto perché portasse il suo nome alle nazioni dei non ebrei (At 9:15) e perché, come suo ministro, scrivesse questa lettera di raccomandazione. Lì a Corinto Paolo predicava ogni Sabato “e persuadeva giudei e greci” (At 18:4-11). Gesù aveva detto ai suoi discepoli: “Separati da me non potete fare nulla” (Gv 15:5). Paolo perciò non poteva aver scritto quella “lettera” di propria iniziativa.
su tavole fatte di carne, su cuori O “su tavole, su cuori carnali”, “su tavole di cuori umani”. La Legge di Mosè era scritta su tavole di pietra (Eso 31:18; 34:1). In questo contesto, il patto della Legge viene messo in contrasto con il nuovo patto promesso nella profezia di Geremia, dove Geova dichiara: “Metterò la mia legge dentro di loro, e la scriverò nel loro cuore” (Ger 31:31-33). Nel profetizzare la liberazione dall’esilio babilonese, Ezechiele disse che Geova avrebbe tolto ai suoi servitori “il cuore di pietra” che avevano, cioè un cuore insensibile, e dato loro “un cuore di carne”, cioè un cuore tenero, docile, un cuore ubbidiente e sensibile alla guida divina (Ez 11:19; 36:26).
se siamo qualificati lo dobbiamo a Dio Nel testo originale di questo versetto, a fronte del verbo “essere qualificati” compaiono due termini che alla lettera contengono l’idea di sufficienza e che, se riferiti a persone, le descrivono come capaci, idonee, qualificate (Lu 22:38; At 17:9; 2Co 2:16; 3:6). Quindi la frase “se siamo qualificati lo dobbiamo a Dio” potrebbe essere tradotta: “È Dio che ci ha reso capaci di fare questo lavoro”. Uno dei due termini originali compare nella Settanta nel testo di Eso 4:10, dove si legge che Mosè non si sentiva qualificato per comparire al cospetto del faraone. Secondo il testo ebraico, Mosè disse: “Non sono mai stato un buon parlatore [lett. “un uomo di parole”]”. La Settanta invece traduce “non sono qualificato”. In realtà Geova stesso aveva reso Mosè idoneo per quell’incarico (Eso 4:11, 12). Lo stesso vale per i ministri cristiani, che sono qualificati grazie allo “spirito dell’Iddio vivente” (2Co 3:3).
ministri O “servitori”. La Bibbia usa spesso il termine greco diàkonos in riferimento a qualcuno che non si risparmia nel servire umilmente gli altri. (Vedi approfondimento a Mt 20:26.) Qui Paolo dice che lui, Timoteo e tutti i cristiani unti con lo spirito (2Co 1:1) sono ministri di un nuovo patto. Questo significa che, tra le altre cose, erano al servizio di questo patto perché predicavano e insegnavano la buona notizia con l’obiettivo di aiutare altri a entrare a farne parte o a riceverne i benefìci. (Vedi approfondimento a Ro 11:13.)
un nuovo patto Tramite il profeta Geremia, Geova preannunciò “un nuovo patto”, diverso dal patto della Legge (Ger 31:31-34). Il patto della Legge era stato stipulato tra Geova e l’Israele naturale, mentre il nuovo patto tra Geova e l’Israele spirituale. Mosè era stato il mediatore del patto della Legge, mentre Gesù il Mediatore del nuovo patto (Ro 2:28, 29; Gal 6:15, 16; Eb 8:6, 10; 12:22-24). Il patto della Legge era stato convalidato con il sangue di animali, mentre il nuovo patto con il sangue di Gesù. Gesù stesso, menzionando “il nuovo patto”, aveva sottolineato quest’ultimo aspetto la sera prima di morire, il 14 nisan del 33 (Lu 22:20 e approfondimento; 1Co 11:25).
non ministri di un codice scritto I cristiani unti non sono ministri del patto della Legge, codice in parte scritto su tavole e poi copiato su rotoli. Il nuovo patto, infatti, è un patto dello spirito, cioè dello spirito di Dio. Mentre il “codice scritto” condannava a morte gli israeliti, il nuovo patto dà vita: i suoi ministri sono condotti dallo spirito di Dio alla vita eterna. Questo spirito permette loro di mantenersi integri e di coltivare le qualità necessarie per ottenere la ricompensa eterna (2Co 1:21, 22; Ef 1:13, 14; Tit 3:4-7).
il codice che dispensa la morte Questa espressione si riferisce alla Legge mosaica. La Legge rendeva evidenti le trasgressioni, ovvero il peccato (Gal 3:19); per questo Paolo poté dire: “Il codice scritto condanna a morte” (2Co 3:6; Gal 3:10). Il patto della Legge prefigurava il nuovo patto che era stato predetto da Geremia (Ger 31:31-33) e che Paolo chiama “la dispensazione dello spirito” (2Co 3:8). Il nuovo patto è superiore al patto della Legge perché coloro che vi sono inclusi sono discepoli del principale Condottiero della vita, Gesù Cristo. Il nuovo patto perciò dispensa la vita, non la morte (At 3:15).
con una gloria tale In questo brano (2Co 3:7-18) Paolo descrive la superiorità della gloria del nuovo patto rispetto a quella del vecchio patto. Questo è il tema centrale della sua argomentazione, come è evidente dal fatto che in questi versetti usa il termine greco reso “gloria” e il verbo greco affine ben 13 volte. In origine il sostantivo reso “gloria” significava “opinione”, “reputazione”, ma nelle Scritture Greche Cristiane assunse il significato di “gloria”, “splendore”, “magnificenza”.
il codice che dispensa la condanna Ancora una volta Paolo si riferisce alla Legge mosaica, che, come ha già detto, “condanna a morte” (2Co 3:6; vedi approfondimento a 2Co 3:7). Quanto al nuovo patto, dice che è la dispensazione della giustizia. Rispetto alla gloria letterale che caratterizzò la consegna della Legge mosaica, la gloria spirituale che fa risplendere i cristiani unti inclusi nel nuovo patto è di gran lunga superiore, dal momento che questi riflettono le qualità di Dio. A beneficio di tutta l’umanità, il nuovo patto rende possibile “il perdono dei peccati” e provvede “un sacerdozio regale”, il che lo rende decisamente superiore al patto della Legge, che non poteva dispensare la giustizia (Mt 26:28; At 5:31; 1Pt 2:9).
si metteva un velo sul volto Dal ragionamento di Paolo si comprende che Mosè si metteva un velo a motivo del modo di pensare carnale degli israeliti e della cattiva condizione del loro cuore (2Co 3:7, 14). Dal momento che erano il suo popolo eletto, Geova voleva che gli israeliti si avvicinassero a lui (Eso 19:4-6). Ma loro, a differenza di Mosè, che parlava con Geova “a tu per tu” (Eso 33:11), esitavano a guardare quello che era un semplice riflesso della Sua gloria. Anziché avvicinarsi a Geova con il cuore e con la mente spinti dall’amore e dalla devozione, si allontanarono da lui.
figli d’Israele O “popolo d’Israele”, “israeliti”. (Vedi Glossario, “Israele”.)
le loro menti erano intorpidite Dal momento che al monte Sinai il cuore degli israeliti non era completamente rivolto a Geova, “le loro menti”, ovvero le loro facoltà mentali, “erano intorpidite”, o alla lettera “indurite”. Lo stesso poteva dirsi di quegli ebrei che continuavano a osservare la Legge anche dopo che Dio, tramite Gesù, l’aveva abolita. Non si rendevano conto che la Legge era servita a condurre a Gesù (Col 2:17). Paolo qui usa il termine velo in senso metaforico per descrivere qualcosa che impedisce la vista o la comprensione. Era solo mediante Cristo, cioè solo riconoscendo che lui era il Messia ed esercitando fede in lui, che quel velo poteva essere eliminato; in questo modo sarebbe stato possibile avere una chiara comprensione dei propositi di Dio (Lu 2:32).
quando si legge il vecchio patto Qui Paolo si sta riferendo al patto della Legge, contenuto nei libri da Esodo a Deuteronomio, libri che costituiscono solo una parte delle Scritture Ebraiche. Lo definisce “il vecchio patto” perché era stato sostituito da “un nuovo patto” e cancellato sulla base della morte di Gesù sul palo di tortura (Ger 31:31-34; Eb 8:13; Col 2:14; vedi approfondimenti ad At 13:15; 15:21).
c’è un velo sul loro cuore Gli ebrei rifiutavano la buona notizia predicata da Gesù. Per questo motivo, quando leggevano la Legge, non si rendevano conto che li conduceva a Cristo. Benché leggessero le Scritture ispirate, non avevano nel loro cuore il giusto atteggiamento, e mancavano di fede e umiltà. Perché quel velo fosse tolto c’era un solo modo: avrebbero dovuto volgersi a Geova con sincerità e umiltà, con completa sottomissione e devozione, riconoscendo che ora era in vigore un nuovo patto (2Co 3:16).
quando qualcuno si converte a Geova Il verbo greco qui reso “si converte” significa in senso letterale “tornare”, “tornare indietro”, “voltarsi” (At 15:36), mentre quando è usato con una connotazione spirituale può descrivere l’abbandono di una condotta sbagliata per tornare o ritornare da Dio (At 3:19; 14:15; 15:19; 26:18, 20). In questo brano (2Co 3:7-18) Paolo si rifà a quanto descritto in Eso 34:34 e commenta l’eccelsa gloria del nuovo patto in paragone col patto della Legge stipulato con Israele per mezzo di Mosè quale mediatore. Per tornare da Geova una persona deve volgersi a lui con sincerità e umiltà, con completa sottomissione e devozione, riconoscendo che è in vigore un nuovo patto. Dal momento che 2Co 3:14 mostra che il velo simbolico può essere rimosso “solo mediante Cristo”, ‘convertirsi a Geova’ implica anche riconoscere il ruolo di Gesù Cristo quale Mediatore del nuovo patto. (Vedi App. C3 introduzione; 2Co 3:16.)
Geova è lo Spirito Queste parole sono simili a quelle di Gesù riportate in Gv 4:24: “Dio è uno Spirito”. Il termine greco pnèuma è qui usato per indicare un essere spirituale. (Vedi Glossario, “spirito”, e approfondimento a Gv 4:24; vedi anche App. C3 introduzione; 2Co 3:17.)
dove c’è lo spirito di Geova c’è libertà Qui Paolo indirizza i suoi compagni di fede alla Fonte della vera libertà, il Creatore di tutte le cose, l’unico ad avere libertà assoluta e illimitata. Per avere autentica libertà bisogna ‘convertirsi a Geova’, bisogna cioè instaurare un rapporto personale con lui (2Co 3:16). La libertà che deriva dallo “spirito di Geova” è più di una liberazione da una schiavitù letterale. Lo “spirito di Geova” infatti rende liberi dalla schiavitù del peccato e della morte, oltre che dalla schiavitù della falsa religione e delle sue pratiche (Ro 6:23; 8:2). Inoltre aiuta i cristiani a sviluppare qualità che sono essenziali per poter essere veramente liberi (Gal 5:22, 23).
lo spirito di Geova Ovvero la potenza di Geova in azione. (Vedi approfondimento ad At 5:9.) Le ragioni per cui la Traduzione del Nuovo Mondo usa qui il nome divino nel testo principale si trovano nelle App. C1 e C3 introduzione; 2Co 3:17.
riflettiamo come specchi Anticamente gli specchi avevano il manico ed erano fatti di metallo, spesso bronzo o rame; di solito erano ben lucidati per creare una buona superficie riflettente. Come specchi, i cristiani unti con lo spirito riflettono la gloria di Dio che risplende su di loro tramite Gesù Cristo. In questo modo vengono trasformati in quella stessa immagine che è trasmessa dal Figlio di Geova (2Co 4:6; Ef 5:1). Per mezzo dello spirito santo e delle Scritture, Dio crea in loro la “nuova personalità”, che è un riflesso delle sue stesse qualità (Ef 4:24; Col 3:10).
la gloria di Geova Il sostantivo greco qui reso “gloria” (dòxa) in origine significava “opinione”, “reputazione”, ma nelle Scritture Greche Cristiane assunse il significato di “gloria”, “splendore”, “magnificenza”. Il corrispondente termine ebraico (kavòhdh) ha fondamentalmente il senso di “peso”, “pesantezza”, e potrebbe indicare ciò che conferisce peso, nel senso di importanza o imponenza, a una persona o a una cosa. Quindi la gloria di Dio può riferirsi a un’imponente manifestazione della sua onnipotenza. Nella Bibbia il termine ebraico per “gloria” compare insieme al Tetragramma più di 30 volte. Alcuni esempi si trovano in Eso 16:7; Le 9:6; Nu 14:10; 1Re 8:11; 2Cr 5:14; Sl 104:31; Isa 35:2; Ez 1:28 e Aba 2:14. (Vedi App. C3 introduzione; 2Co 3:18.)
con una gloria sempre maggiore Lett. “di gloria in gloria”. Man mano che progrediscono spiritualmente, i cristiani unti con lo spirito riflettono sempre di più la gloria di Geova. Vengono così trasformati nell’immagine di Dio riflessa da suo Figlio, il “Cristo, che è l’immagine di Dio” (2Co 4:4). È da notare che il verbo greco per “trasformare” (metamorfòo) è usato da Paolo anche nella lettera ai Romani. (Vedi approfondimento a Ro 12:2.)
Geova, lo Spirito Questa resa è in armonia con la prima parte di 2Co 3:17, dove viene detto che “Geova è lo Spirito”. (Vedi approfondimento.) Ma un’altra resa potrebbe essere “spirito di Geova”. Entrambe le rese sono corrette dal punto di vista grammaticale. (Vedi App. C3 introduzione; 2Co 3:18.)