Seconda lettera ai Corinti 5:1-21
Note in calce
Approfondimenti
la nostra casa terrena, questa tenda Qui Paolo usa la metafora di una tenda “fatta da mani umane” per riferirsi al corpo fisico dei cristiani unti con lo spirito. Visto che si può smontare, una tenda è una dimora temporanea e relativamente fragile; allo stesso modo il corpo terreno dei cristiani unti è mortale, corruttibile e temporaneo. Comunque questi cristiani sono impazienti di ricevere “da Dio un’abitazione”, cioè un corpo spirituale che è eterno e incorruttibile (1Co 15:50-53; confronta 2Pt 1:13, 14; vedi approfondimento a 2Co 5:4).
distrutta O “dissolta”. Paolo ha appena paragonato il corpo fisico a una tenda “fatta da mani umane”, e qui usa un verbo greco (katalỳo) che può anche essere reso “smontare”, “demolire”.
dimora Il termine greco qui usato (oiketèrion) compare solo qui e in Gda 6, dove è ugualmente reso “dimora”.
la nostra dimora celeste Lett. “la nostra dimora che [è] dal cielo”. (Vedi approfondimento a 2Co 5:1.)
non saremo trovati nudi Paolo sapeva che lui e altri cristiani unti sarebbero morti prima della presenza di Cristo; sarebbero quindi stati per un certo periodo “nudi”, o svestiti, nella morte. Non avrebbero avuto né un corpo carnale né uno spirituale, ma avrebbero dormito nella Tomba. Comunque, se fossero rimasti fedeli durante la loro vita qui sulla terra, non sarebbero rimasti “nudi” nella morte. Avevano la garanzia che sarebbero stati risuscitati in futuro e quindi avrebbero potuto “rivestire” un corpo spirituale e “dimorare presso il Signore” (2Co 5:1-8; vedi approfondimento a 2Co 5:4).
vogliamo rivestire l’altra Paolo e gli altri cristiani unti “[desideravano] ardentemente” essere risuscitati in cielo come creature spirituali immortali (2Co 5:2). La speranza celeste che Dio aveva dato loro era molto forte, ma questo non voleva dire che volessero morire. Paolo paragona il suo corpo carnale e quello degli altri unti a una tenda, e aggiunge non [...] vogliamo svestircene. (Vedi approfondimento a 2Co 5:1.) Con queste parole Paolo indica che i cristiani unti non desideravano morire, anche se questo avrebbe permesso loro di evitare le malattie tipiche dell’essere umano oppure le responsabilità e le difficoltà legate al loro ministero. (Vedi approfondimento a 2Co 5:3.) Quando usa l’espressione “vogliamo rivestire l’altra”, Paolo esprime il desiderio che hanno i cristiani unti di vivere in cielo; gli unti non vedono l’ora di servire Geova per sempre insieme a Cristo Gesù (1Co 15:42-44, 53, 54; Flp 1:20-24; 2Pt 1:4; 1Gv 3:2, 3; Ri 20:6).
come garanzia di ciò che deve venire O “caparra [o “acconto”, “pegno”] di ciò che deve venire”. (Vedi approfondimento a 2Co 1:22.)
camminiamo per fede, non per visione Nella Bibbia il verbo “camminare” è spesso usato in senso figurato con il significato di “vivere”, “agire”, “seguire una certa condotta”. Quindi l’espressione “camminare per fede” si riferisce al vivere facendosi guidare dalla fede e dalla fiducia in Dio e in quello che ha fatto conoscere. Qui è messa in contrasto con l’espressione “camminare per visione”, che vuol dire vivere facendosi guidare da quello che si può vedere o da ciò che appare. In questo contesto Paolo aveva in mente i cristiani unti con lo spirito: non potevano vedere con gli occhi letterali la loro ricompensa celeste, ma la fede che avevano era ben radicata. In ogni caso, tutti i cristiani nella loro vita dovrebbero farsi guidare dalla fede.
tribunale del Cristo In Ro 14:10 Paolo menziona il “tribunale di Dio”. Geova però giudica attraverso suo Figlio (Gv 5:22, 27), ed è per questo che qui si parla del “tribunale del Cristo”. All’epoca dei primi cristiani a fungere da tribunale era di solito una piattaforma rialzata (in greco bèma), posta all’aperto, a cui si accedeva mediante scalini. Le autorità vi si sedevano per rivolgersi alle folle e annunciare le loro decisioni (Mt 27:19; Gv 19:13; At 12:21; 18:12; 25:6, 10). Qui in 2Co 5:10 l’utilizzo da parte di Paolo di questo termine può aver ricordato ai corinti l’impressionante tribunale della loro città. (Vedi Glossario, “tribunale”, e Galleria multimediale, “Tribunale di Corinto”.)
cattivo O “vile”. Il termine greco qui reso “cattivo” è fàulos. In alcuni contesti può trasmettere l’idea di malvagità nel senso di bassezza morale. Paolo indica che ogni essere umano può scegliere di praticare ciò che è buono oppure ciò che è cattivo, ovvero di vivere secondo le norme di Dio oppure di ignorarle.
il timore del Signore In questo contesto il termine “Signore” a quanto pare si riferisce a Gesù Cristo. Nel versetto precedente Paolo ha detto che “tutti [...] dobbiamo comparire davanti al tribunale del Cristo”. (Vedi approfondimento a 2Co 5:10.) Isaia preannunciò il ruolo di Giudice che avrebbe avuto Gesù (Isa 11:3, 4). “Il timore del Signore” scaturisce dall’intenso amore e dal profondo rispetto per Geova, che ha dato a Gesù l’incarico di Giudice (Gv 5:22, 27).
ci conosce bene [...] siamo altrettanto noti Paolo è convinto che Dio sappia che tipo di persone sono lui e i suoi collaboratori. Quindi spera che anche i corinti riconoscano che i loro motivi e il loro comportamento sono buoni.
quelli che si vantano dell’apparenza Il verbo greco reso “vantarsi” (kauchàomai) è usato spesso per indicare orgoglio egoistico. Paolo lo usa diverse volte nelle sue lettere ai Corinti. La Bibbia spiega che nessuno ha motivo di vantarsi di sé stesso o dei suoi successi (Ger 9:23, 24). Sull’argomento l’apostolo Paolo dà energici consigli alla congregazione, spiegando che i cristiani hanno ragione di vantarsi solo di Geova Dio e di quello che ha fatto per loro, e non dei legami che hanno con chicchessia (1Co 1:28, 29, 31; 4:6, 7; 2Co 10:17).
Se siamo stati fuori di senno, è stato per Dio Qui Paolo usa un verbo greco che significa “uscire fuori di sé”, “essere fuori di sé”. Forse Paolo si sta semplicemente riferendo al fatto che più avanti, in questa lettera, si vanta di sé con l’obiettivo di dimostrare di essere qualificato come apostolo, cosa che era stata messa in discussione da chi lo criticava (2Co 11:16-18, 23). Anche se Paolo era pienamente qualificato, non si sentiva a suo agio a vantarsi. Non era l’orgoglio che lo spingeva a farlo; lo faceva piuttosto “per Dio”, cioè per difendere la verità e proteggere la congregazione da influenze pericolose. In questo stesso versetto Paolo si definisce ‘assennato’; aveva infatti un concetto equilibrato di sé. (Confronta At 26:24, 25; Ro 12:3.) La sua assennatezza recò grandi benefìci a coloro ai quali insegnò. Ecco perché poté giustamente dire: è per voi.
l’amore del Cristo L’espressione greca potrebbe significare sia “l’amore che Cristo ci mostra” che “l’amore che noi mostriamo a Cristo”. Secondo alcuni entrambe le rese sono possibili. Nel contesto, comunque, viene data enfasi all’amore mostrato da Cristo (2Co 5:15).
ci costringe Il verbo greco qui usato significa alla lettera “tenere insieme”, e può trasmettere l’idea di “esercitare un controllo continuo su qualcuno o qualcosa”, “spronare”, “forzare”. L’amore che Cristo ha dimostrato cedendo la propria vita a nostro favore è talmente straordinario che, man mano che ne comprendiamo la portata, il nostro cuore ne è profondamente toccato. È in questo senso che l’amore del Cristo aveva il controllo su Paolo. Questo amore lo spinse a smettere di perseguire mete egoistiche e a concentrarsi sull’obiettivo di servire Dio e gli altri esseri umani sia dentro la congregazione che fuori. (Confronta approfondimento a 1Co 9:16.)
secondo la carne O “secondo un criterio carnale”, “da un punto di vista umano”. In questo contesto il termine reso “carne” (in greco sàrx) si riferisce in linea di massima ad aspetti connessi ai limiti dell’essere umano, inclusi il modo in cui ragiona e i risultati che raggiunge. (Vedi approfondimenti a Ro 3:20; 8:4.) Paolo intende dire che i cristiani non stabiliscono il valore dei propri compagni d’opera sulla base di posizione sociale, condizione economica, razza, nazionalità, o altri fattori di questo tipo. Dal momento che Cristo è morto per tutti, queste distinzioni carnali sono assolutamente irrilevanti. Ciò che conta è il legame spirituale che li unisce (Mt 12:47-50).
di certo ora non lo conosciamo più così Se un cristiano all’inizio aveva guardato a Gesù da una prospettiva umana, sperando che fosse venuto a ristabilire il regno giudaico sulla terra, aveva poi abbandonato quel punto di vista carnale (Gv 6:15, 26). I cristiani infatti capivano che Gesù aveva offerto il suo corpo carnale in riscatto ed era diventato “uno spirito che dà vita” (1Co 15:45; 2Co 5:15).
è unito a Cristo Lett. “in Cristo”. Ogni cristiano unto con lo spirito si trova in una condizione di completa unione con Gesù Cristo (Gv 17:21; 1Co 12:27). Questo speciale legame si instaura quando Geova attira il singolo individuo in modo che sia unito a suo Figlio e lo genera con lo spirito santo (Gv 3:3-8; 6:44).
è una nuova creazione Ogni cristiano unto è una nuova creazione nel senso che diventa un figlio di Dio generato dallo spirito con la prospettiva di regnare con Cristo nel Regno celeste (Gal 4:6, 7). È vero che dalla fine del sesto giorno creativo non sono state create nuove cose fisiche (Gen 2:2, 3), ma qui ci si riferisce alla creazione di nuove cose spirituali.
ne sono venute all’esistenza di nuove Gesù è stato la prima “nuova creazione” di Dio: quando al suo battesimo venne unto, diventò un figlio di Dio generato dallo spirito con la prospettiva di vivere in cielo. Inoltre Gesù e gli unti che regneranno con lui formano collettivamente la congregazione cristiana, anch’essa una nuova creazione spirituale (1Pt 2:9).
Dio, che ci ha riconciliato con sé Tutti gli esseri umani hanno bisogno di essere riconciliati con Dio perché il primo uomo, Adamo, disubbidendo trasmise il peccato e l’imperfezione a tutti i suoi discendenti (Ro 5:12). Di conseguenza sono lontani da Dio, in una condizione di inimicizia con lui, visto che le sue stesse norme non gli consentono di condonare la trasgressione (Ro 8:7, 8). I termini greci per “riconciliare” e “riconciliazione” fondamentalmente hanno il significato di “cambiare”, “scambiare”. In questo contesto descrivono il passaggio da un rapporto di ostilità con Dio a uno di amicizia e armonia. Con l’espressione “ci ha riconciliato” Paolo si riferisce a sé stesso, ai suoi collaboratori e a tutti i cristiani unti con lo spirito. Innanzitutto Dio li ha riconciliati con sé mediante Cristo, cioè grazie al suo sacrificio di riscatto. Poi ha affidato loro “il ministero della riconciliazione”. (Vedi approfondimento a Ro 5:10.)
il ministero della riconciliazione Cioè il ministero con il quale gli esseri umani sono aiutati a essere “riconciliati con Dio attraverso la morte di suo Figlio” (Ro 5:10). Con questo ministero si trasmette alle persone lontane da Dio un messaggio urgente affinché stringano una relazione pacifica con lui e diventino suoi amici (2Co 5:18-20; per una trattazione del termine “ministero” [in greco diakonìa], vedi approfondimenti ad At 11:29; Ro 11:13).
Dio riconciliava [...] mediante Cristo Alcune traduzioni della Bibbia rendono questa frase così: “Dio era in Cristo nel riconciliare”. Però la preposizione greca en, alla lettera “in”, può avere molti significati che variano in base al contesto. Il versetto precedente dice chiaramente: “Dio [...] ci ha riconciliato con sé mediante [in greco dià] Cristo” (2Co 5:18). Per questo motivo, qui en è stato tradotto “mediante”.
riconciliava con sé un mondo Il mondo, ovvero tutti gli esseri umani, ha bisogno di essere riconciliato con Dio perché il primo uomo, Adamo, disubbidendo trasmise il peccato e l’imperfezione a tutti i suoi discendenti. (Vedi approfondimento a 2Co 5:18.) Dio sta effettuando questa riconciliazione mediante Cristo, cioè grazie al suo sacrificio espiatorio (Ro 5:10; 2Co 5:21; Col 1:21, 22). Geova ha nominato quelli che sono uniti a Cristo “ambasciatori” in un mondo ostile e ha affidato loro “il ministero della riconciliazione” (2Co 5:18, 20).
il messaggio della riconciliazione O “la parola della riconciliazione”. Nel testo biblico la parola, o messaggio, di Dio all’umanità viene definita in modi diversi, che ne approfondiscono il significato e ne mettono in evidenza le sfumature del contenuto. Qui viene chiamata “il messaggio della riconciliazione”. In altri passi è definita “la parola del Regno” (Mt 13:19), “la parola di questa salvezza” (At 13:26, nt.), “la parola della verità” (Ef 1:13) e “la parola della giustizia” (Eb 5:13). Con l’espressione “Dio [...] ci ha affidato il messaggio”, Paolo lascia trasparire gratitudine per il privilegio, ricevuto da lui e da tutti i cristiani unti, di trasmettere questo messaggio della riconciliazione.
siamo [...] ambasciatori Qui Paolo parla di sé e dei suoi collaboratori come di “ambasciatori in nome di Cristo”. Nei tempi biblici potevano essere diversi i motivi per cui si inviavano ambasciatori e altri messaggeri. Per esempio, in periodi di ostilità venivano mandati ambasciatori per vedere se si poteva evitare la guerra o, se la guerra era già in atto, per trattare condizioni di pace (Isa 30:1-4; 33:7). Ai giorni di Paolo popoli, città o province dell’impero romano inviavano i propri ambasciatori a Roma per rinsaldare alleanze, ricevere assistenza o perorare la propria causa. Il verbo greco reso “essere ambasciatore” (presbèuo) compare due volte nelle Scritture Greche Cristiane, qui e in Ef 6:19, 20, dove Paolo parla di sé come di un ambasciatore della buona notizia. Il sostantivo affine presbèia è reso “corpo di ambasciatori” in Lu 14:32 e “delegazione” in Lu 19:14. Entrambi i termini, presbèuo e presbèia, sono affini al sostantivo presbỳteros, che significa “uomo più vecchio”, “anziano” (Mt 16:21; At 11:30).
in nome di Cristo O “in luogo di Cristo”. Dopo che Cristo era stato risuscitato ed era asceso al cielo, i suoi fedeli discepoli furono incaricati di agire in sua vece, come “ambasciatori in nome di Cristo”. Furono inviati prima agli ebrei e poi alle nazioni, tutte persone lontane da Geova, il Sovrano Supremo. I cristiani unti servono come ambasciatori in un mondo che non è in pace con Dio (Gv 14:30; 15:18, 19; Gc 4:4). Nella lettera agli Efesini, scritta durante la sua prima detenzione a Roma (59-61 ca.), Paolo si definì “ambasciatore in catene” (Ef 6:20).
Colui che non ha conosciuto peccato Qui ci si riferisce a Gesù, che non ha mai peccato. Geova però lo ha fatto diventare peccato in nostro favore, nel senso che ha fatto in modo che morisse come se fosse un’offerta per il peccato, così da espiare la pena per i peccati dell’umanità. (Confronta Le 16:21; Isa 53:12; Gal 3:13; Eb 9:28.) L’espressione “lo ha fatto diventare peccato” potrebbe anche essere resa “lo ha fatto diventare un’offerta per il peccato”. Parlando di Gesù, l’apostolo Giovanni scrisse: “Lui è un sacrificio propiziatorio [o “sacrificio di espiazione”, “mezzo per placare”] per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2:2). Mentre gli israeliti per avvicinarsi a Dio offrivano sacrifici animali, che erano uno strumento limitato, i cristiani possono contare sul sacrificio di Gesù Cristo, che è una base molto più valida (Gv 14:6; 1Pt 3:18).
affinché mediante lui diventassimo giustizia di Dio Mediante Gesù possiamo ottenere una condizione giusta, o approvata, dinanzi a Dio. Forse Paolo aveva in mente la profezia messianica di Isaia riguardo al “servitore” di Geova che avrebbe fatto “avere una condizione giusta a molti” (Isa 53:11).